Dalla passerella alla città: chi detta davvero l’estetica del retail?

La moda detta legge, ma siamo sicuri che sia ancora la passerella a stabilire i codici estetici globali?

Durante la Fashion Week, Milano diventa essa stessa una vetrina diffusa, un laboratorio urbano in cui negozi, facciate e persino tram diventano parte del racconto estetico dei brand.
Proviamo ad esplorare come il rapporto tra passerelle, vetrine e città stia ridefinendo il linguaggio visivo del retail.

Dalla passerella alle vetrine: un processo che cambia

Tradizionalmente, la sfilata segnava l’inizio di un percorso: silhouette, colori e immaginari passavano attraverso filtri anche commerciali per approdare mesi dopo nei negozi e quindi nelle vetrine.
Oggi questa sequenza è saltata o almeno cambiata. Le vetrine non aspettano più: parlano in tempo reale, spesso anticipando i codici estetici, e la città diventa palcoscenico immediato della moda.

Camminando tra Monte Napoleone, Brera o San Babila, ma in città in generale, si ha la sensazione di essere dentro a una sfilata collettiva.

  • Facciate illuminate che cambiano volto

  • Tram brandizzati come scenografie itineranti

  • Chioschi e negozi che diventano installazioni temporanee

Milano diventa un museo a cielo aperto, accessibile a tutti: dalla signora che va al mercato al turista casuale. La moda esce dagli inviti esclusivi e invade lo spazio pubblico.

A questo punto quale è ruolo delle persone che vivono la città: sono spettatori o attori?

La città-palcoscenico non ci lascia neutrali. Chi attraversa quegli spazi diventa parte attiva del racconto:

  • un tram brandizzato diventa sfondo di selfie e stories

  • una facciata scenografica diventa contenuto virale

Il pubblico non è più solo spettatore, ma potenziale amplificatore del messaggio del brand, trasformandosi in co-creatore inconsapevole di marketing tra spettacolo e saturazione visiva

Si perché, se da un lato la spettacolarizzazione urbana rende la moda in qualche modo inclusiva e visibile, sotto l’occhio di tutti, dall’altro apre rischi concreti:

  • sovraccarico estetico: molti takeover in pochi isolati possono risultare eccessivi

  • appropriazione dello spazio: quando il branding copre facciate storiche, il confine tra valorizzazione e invasione diventa sottile e critico

  • dialogo con il contesto: estetiche calate dall’alto rischiano di non dialogare con il tessuto urbano

Spesso la moda viene paragonata all’arte, e ne capisco bene il motivo ma va aggiunto un pizzico responsabilità etica.

L’occupazione dello spazio pubblico da parte dei brand non è nuova e nemmeno esclusiva de settore moda, anzi: cartelloni, murales e installazioni sono sempre stati strumenti di comunicazione e spesso anche efficaci.

Oggi, però, la scala è cambiata. Non si tratta più solo di immagini statiche, ma di esperienze immersive e pervasive.

Il paragone con l’arte è inevitabile specialmente se si tratta di generare stupore estetico. I brand lo fanno però con finalità anche commerciali, con un effetto provocatorio e distopico simile a quello dell’arte per il pubblico.

Da qui nasce la mia domanda etica: fino a che punto un brand può trasformare lo spazio urbano senza snaturarlo?

Se prima erano le passerelle ad innescare e imporre i codici estetici, oggi la situazione è più complessa:

  • I direttori creativi lanciano un immaginario, sicuramente una buona scintilla risiede in quello

  • Le vetrine lo traducono e lo rendono tangibile, sotto gli occhi di tutti

  • Le città amplificano, diventando musei diffusi e in qualche modo democratici

  • Il pubblico diventa attore e moltiplicatore anche inconsapevolmente

La vera estetica del retail nasce dall’intersezione di questi attori.

Ma resta aperta una domanda cruciale: stiamo vivendo un dialogo tra brand e città, o un monologo che usa lo spazio urbano come semplice megafono?

 

Vuoi approfondire questi temi?
🎧 Ascolta l’episodio completo del podcast Gordon – Emozioni da Vendere per scoprire altre riflessioni sul rapporto tra moda, retail e spazio urbano.


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